Aricolo pubblicato su Cultura e Diritti. Per una formazione giuridica, Rivista della Scuola Superiore dell’Avvocatura, nn 1/2, Gennaio – Agosto 2016, pp. 55 e ss.

 

“Le leggi incontrano sempre sulla propria strada  le

passioni e i pregiudizi del legislatore.   Talora vi

passano attraverso, ma se ne impregnano; talaltra

vi restano impigliate e visi incorporano”

( Montesquieu, Lo spirito delle leggi, XXX,19)

 

 

A fronte del concreto funzionamento del processo penale in Italia emergono quotidianamente, da parte di operatori e commentatori, critiche che si incentrano prevalentemente sui tempi necessari ad addivenire ad una sentenza definitiva ma anche sulla “qualità” dei provvedimenti  giurisdizionali. Spesso le valutazioni vengono espresse in relazione a specifici episodi a seguito dei quali si invocano provvedimenti frutto di improvvisazione e demagogia. Sembra che si sia rinunziato,( o forse non si abbia più) alla concezione della Giustizia come fondata sul rispetto dei diritti fondamentali e il processo come ispirato a criteri di sistematicità.

 

Non sorprende, pertanto, che non vengano affrontati dalle radici i problemi che affliggono la Giustizia penale e che invece si proceda, di consuetudine, trasformando la materia penale e quella processuale in particolare, in terreno di interventi disorganici, spesso ispirati e finalizzati a contingenze mediatiche. Il disegno del riformatore Vassalli è oggi profondamente trasformato da un insieme di rattoppi legislativi e giurisprudenziali che hanno determinato lo stravolgimento della impostazione accusatoria del codice e, soprattutto, hanno fatto perdere di vista l’esigenza di consolidare i principi ai quali il rito deve ispirarsi così da rendere ormai irrinunciabile una riflessione volta a una complessiva e organica riconsiderazione del processo.

A titolo di esempio può citarsi il fatto che dall’entrata in vigore del codice di rito al 1994 più di 50 sono state le norme dello stesso e dei decreti legislativi connessi oggetto di una o più modifiche; altrettanto significativo è il dato delle norme, 41, oggetto di declaratoria di incostituzionalità da parte della Corte Costituzionale[1].

Invece di lasciarsi completamente travolgere dalla necessità, ormai quasi quotidiana, di misurarsi con il disegno di legge di turno, spesso sovrapposto a quello precedente e a quello successivo, occorre avere la capacità, pur continuando a difendere costantemente sul campo principi sacrosanti a tutela delle garanzie defensionali, di aprire una fase di ampia riflessione nella quale affrontare finalmente con la necessaria visione d’insieme le problematiche del sistema processuale penale alla luce delle tutele che deve assicurare con il fine di recuperare allo stesso efficacia e credibilità.

Con entusiasmo si era salutata la riforma che avrebbe dovuto segnare la definitiva uscita di scena della cultura inquisitoria dal nostro ordinamento assicurando altresì la celere definizione dei procedimenti.

Tale entusiasmo si è dimostrato impietosamente ingenuo dal momento che non aveva tenuto conto di due fattori fondamentali.

Non si sradica una cultura, quale quella inquisitoria, che ha plasmato per generazioni gli operatori del diritto solo con una riforma delle norme.

Tanto meno nel Paese ove in sede costituente il principio di presunzione di innocenza non fu recepito in termini così chiari ed inequivoci ma venne trasformato, in modo significativo, in uno di non colpevolezza[2].

Di questa cultura inquisitoria, ancor oggi, ad un quarto di secolo dalla riforma, siamo portatori, a volte inconsapevoli, mantenendone quanto meno un’eco nel nostro DNA, fenomeno che è stato con molta efficacia qualificato come “inconscio inquisitorio”[3].

Molti ne sono ancora convinti fautori, per averne certezza basta guardare a cosa è ridotto quello che doveva essere un sistema accusatorio.

L’altro fattore è quello del tempo.

Il processo doveva essere rapido: gli istituti dello stesso avevano senso di efficacia e di garanzia solo se proiettati in tempi stretti; il dibattimento poteva effettivamente rappresentare il momento centrale della formazione della prova perché avrebbe dovuto trattare di fatti accaduti di recente; le misure cautelari non avrebbero mai assunto funzione anticipatoria della pena.

Tutto ciò a tacere del fatto che il tempo è elemento essenziale della Giustizia in quanto tale e in relazione agli interessi pubblici e privati che in essa si riconoscono.

Anche in questo caso non si tenne conto del fatto che l’innesto del nuovo sul vecchio avrebbe scontato l’eredità del precedente rito e l’inadeguatezza almeno parziale degli strumenti e delle risorse disponibili.

Gli interventi legislativi e giurisprudenziali a pioggia di cui si è detto non agevolarono certo in fase di avviamento la tempistica del nuovo rito.

Da queste due premesse occorre ripartire.

Riesce difficile, ad oggi impossibile, concepire un giudicante italiano che si comporti come un suo collega che operi in regime (anche culturale) di Common Law, dedicandosi con spirito “notarile” al vaglio del materiale probatorio che gli viene offerto esclusivamente dalla acquisizione della parti.

Nelle nostre aule con il nuovo codice è entrato da subito l’articolo 507 a riprova del fatto che nel modello non era del tutto eliminata l’impronta inquisitoria. Già nel 1991 la Corte Costituzionale [4]  qualificava il potere conferito al Giudice dall’articolo 507 c.p.p. come “suppletivo contro la negligenza e inerzia della parti”. Un manifesto programmatico.

Nelle nostre aule, nonostante l’impegno dei difensori, non è mai entrata con pienezza la cross examination, mortificata e ridotta negli schemi consueti al vecchio rito, vigilata strettamente dal Giudice.

Riflettendo sui tempi lunghi giova aprire una parentesi per rilevare che  se al dibattimento si giunge dopo l’udienza preliminare il processo avrà vissuto, con grande probabilità, una fase svuotata del suo significato e ridotta da consolidate ed estese prassi a poco più di un passaggio formale utile solo ad allungare  i tempi della procedura.

Sotto altro profilo i riti alternativi non hanno avuto la funzione deflattiva auspicata e per la prospettiva indotta dai tempi i del giudicato e per la frequente perdita di convenienza processuale dovuta a trattamenti sanzionatori non effettivamente premiali rispetto agli esiti dibattimentali comparabili.

Il rito abbreviato fin dalla prima entrata in vigore del codice non ha conservato la sua propria natura di “decisione allo stato degli atti” subendo anch’esso il peso di quella cultura inquisitoria che permette al Giudice di promuovere l’integrazione del quadro probatorio.

Tornando al grande malato, e cioè al dibattimento, il principio della formazione della prova nel suo ambito corre il rischio di trasferirsi nel novero dei miti.

Ma per analizzarne la pericolosa china intrapresa dal meccanismo di acquisizione probatorio occorre fare un passo indietro e considerare alcuni aspetti relativi alle indagini preliminari.

Il rito accusatorio prevede una funzione attiva della difesa che deve essere messa in condizione di sviluppare le proprie indagini nel modo più efficace, attivandosi ove del caso quantomeno contestualmente alla notizia, tempestiva, della iscrizione dell’indagato nel registro della Procura.

L’articolo 111 della Costituzione e l’articolo 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo affermano esplicitamente il diritto ad essere informati nel più breve tempo possibile della natura e dei motivi dell’accusa e il conseguente diritto a disporre del tempo e delle condizioni per preparare la difesa.

A fronte di ciò occorre dire che l’informazione relativa alle indagini è oggi troppo spesso affidata ai media, al di fuori della lettera e dello spirito della legge. Così, a fronte del segreto che viene opposto alle parti, correttamente sotto un profilo formale anche se spesso infondatamente sotto l’aspetto sostanziale, le notizie anche relative alla iscrizione nel registro degli indagati vengono propalate a mezzo stampa, frequentemente con taglio colpevolista, così come avviene per brani di intercettazioni o documenti acquisiti nell’ambito delle indagini. All’indagato può capitare così di apprendere di tale sua qualità leggendo il giornale o guardando la televisione.

Questa ormai consolidata prassi non merita ulteriori commenti alla luce di principi di civiltà giuridica che dovrebbero essere patrimonio di tutti.

Per altro la sensibilità media in materia è tale che spesso, ove la stampa non si occupi di un procedimento, l’indagato ne possa venire a conoscenza attraverso la notifica della richiesta di proroga del termine o direttamente ricevendo l’avviso di conclusione delle indagini. Il tutto magari a distanza di anni dai fatti oggetto delle contestazioni.

Discorso a parte deve essere riservato all’uso dell’articolo 349 c.p.p.: l’identificazione avviene in molti casi a distanza di tempo dalla iscrizione o comunque dal fatto; è richiesta, a volte, oltre alla declinazione delle generalità, la nomina di un difensore, senza specificare in relazione a quale reato o quale procedimento. Si richiede, come dal disposto del comma 3, l’indicazione o l’elezione di domicilio.

Con riguardo a questo ultimo aspetto è da registrare come alcune elezioni di domicilio non appaiano genuine specie in caso di soggetti difficilmente reperibili o cattivi conoscitori della lingua (il dubbio riguarda la comprensione della funzione della elezione di domicilio e le sue conseguenze). Già in precedenza e tanto più a seguito della riforma del regime della contumacia, tali elezioni di domicilio, formalmente interpretate come atto rivelatore della conoscenza del processo, finiscono per privare di fatto l’indagato/imputato della possibilità di essere informato dello svolgersi della procedura e quindi del diritto alla difesa. Visti i venti di riforma, probabilmente in un prossimo futuro, della possibilità di proporre impugnazione.

Fu certamente una vittoria la nuova formulazione dell’articolo 335 c.p.p., ma senza la previsione di un termine per la risposta alle istanze di parte, nella insensibilità o peggio rispetto alla importanza di questa informazione che attiva sostanzialmente il diritto di difesa, le risposte giungono spesso a distanza di tempo considerevole. Ciò rende assai difficoltosa la preparazione della linea defensionale e lo svolgimento delle indagini difensive che a distanza di molto tempo dai fatti devono misurarsi con la difficoltà di reperimento di elementi materiali e con memorie sempre meno fresche.

Occorre riflettere seriamente sulla informazione all’indagato così come disciplinata dal combinato disposto degli articoli 369 e 335 c.p.p.: il dettato costituzionale e la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo indicano un sistema ben diverso da quello che si attiva “solo” (e se) devono essere compiuti determinati atti.

L’informazione tempestiva è una pietra miliare di civiltà giuridica in quanto tutela il rispetto della sfera di libertà del singolo, permette l’attivazione del diritto di difesa e delle garanzie processuali oltre al controllo di legittimità sulla procedura. E’ un principio che il nostro ordinamento incredibilmente deve ancora cominciare ad applicare sostanzialmente, fatto questo sul quale pesa una spessa cappa di silenzio e di indifferenza. Tutto ciò dimostra quanto diffuso e pernicioso sia il famoso inconscio inquisitorio.

L’informazione all’indagato, salvo specifiche e tassative cause ostative temporanee, deve essere prevista ad impulso d’ufficio all’atto della iscrizione, con sanzione processuale di inutilizzabilità degli atti successivamente compiuti.

L’iscrizione deve avvenire con modalità e tempi certi e trasparenti.

Eventuali richieste di informazione sullo stato del procedimento devono essere evase in tempi brevi e determinati.

L’informazione di cui all’articolo 335 c.p.p. dovrebbe giovarsi di un efficiente sistema informatico fruibile a livello nazionale che informi sui passaggi processuali di rilievo (data di iscrizione, richiesta di proroga del termine per le indagini, richiesta di archiviazione, avviso di conclusione delle indagini, richiesta del giudizio, richiesta di decreto penale, rimessione per competenza).

I termini relativi alla fase delle indagini preliminari, fase nella quale con frequenza maturano le condizioni che producono l’allungamento del tempo del processo, tenuto in assoluto conto di quelle che sono le esigenze di indagine rispetto anche alla diversa gravità e complessità dei fatti, dovrebbero essere diversamente disciplinati rappresentando oggi un parametro di scarsissimo rilievo in ordine all’esigenza di dare a detta fase processuale tempi certi e contenuti. Di fondamentale importanza, anche in ossequio ai principi del rito accusatorio, la necessità che il fascicolo del PM, scaduti i termini per le indagini, in ogni caso lasci materialmente la Procura per essere sottoposto ad un Giudice che ne decida la sorte. Anche in questo caso ci si deve confrontare con la prepotente resistenza della cultura inquisitoria.

Stupisce, se ancora lo si può fare, il fatto che, scatenato con sapiente induzione il clamore in relazione alla prescrizione (clamore utilizzato anche a fini mediatici) nessuno abbia quantomeno accennato alla necessità di affrontare il vero problema: la durata del processo. Questa non verrà certo limitata dalla concessione di un maggior tempo per la definizione delle procedure.

Pur non negando le problematiche che contingentemente possono portare a valutare la necessità di spostare l’attenzione sull’effetto, il dilatarsi dei tempi, anziché sulla cause del fenomeno, è di tutta evidenza come tale necessità sia stata ampiamente strumentalizzata al fine di proporre apparenti soluzioni utili solo a fornire risposte mistificatorie all’opinione pubblica e a mascherare la incapacità o la non volontà di affrontare realmente il problema.

Un esempio per tutti: con l’entrata in vigore del reato di omicidio stradale, che ha fornito ad un problema di grande rilevanza sociale una risposta inadeguata agendo solo sulla severità della pena, abbiamo assistito al seguente paradosso a dimostrazione che la prescrizione non è oggi intesa come espressione di un diritto fondamentale dell’individuo rispetto al potere dello Stato ma è diventata uno strumento di propaganda. L’omicidio stradale compiuto da persona in stato di ebbrezza comporta naturalmente un intervento accertativo nella immediatezza del fatto al fine di poter valutare le condizioni dell’agente in mancanza del quale difficilmente potrà procedersi per questo titolo di reato; sappiamo, inoltre, che un processo  relativo alla circolazione stradale non comporta di norma indagini complesse e non le comporterà nemmeno in relazione alla necessità in oggi rafforzata di verificare eventuali apporti concausali. Ci si sarebbe aspettati che in ossequio alla rilevata pericolosità sociale del fenomeno si fosse previsto che i relativi processi dovessero avere tempi di definizione rapidi. Invece, all’evidente scopo di dimostrare che si voleva “fare sul serio” accanto alla durezza sanzionatoria si è utilizzato del tutto impropriamente lo strumento del raddoppio della  prescrizione evidentemente ormai intesa come indice di volontà repressiva.

Così per fatti che postulano necessariamente accertamenti rapidi, in un quadro probatorio normalmente non complesso, il termine prescrizionale potrà raggiungere e superare i venti anni.

In questo modo non si fornisce certamente un incentivo alla definizione dei procedimenti.

Per altro questa considerazione sconta il fatto che se la materia sarà riformata secondo quanto è in discussione, avremo una ulteriore dilatazione dei tempi della prescrizione e così, a parere dello scrivente, dei tempi del processo.

Risolvere il vero problema, quello della durata del processo, non vuol solo dire dare tempi certi alle fasi processuali, vuole soprattutto significare fornire strumenti idonei a chi il processo deve gestire e affrontare problemi che aleggiano da sempre irrisolti sullo stesso.

L’azione penale deve restare obbligatoria ma lo spazio delle violazioni penalmente rilevanti deve essere circoscritto con criteri sistematici e logici .

E’ il legislatore che deve fare ciò adeguando la risposta alle mutevoli condizioni sociali e indirizzando le risorse sui fatti che destano maggior allarme sociale.

Oltre alla depenalizzazione servono strumenti di rapida risoluzione delle micro controversie.

La strada non può essere quella seguita per l’ingiuria ( processo civile con sanzione civilistica oltre al risarcimento del danno) ma deve essere ricercata nell’ambito della semplificazione delle procedure e della differenziazione dei trattamenti sanzionatori.

Esistono ancora numerosissime contravvenzioni oblazionabili che potrebbero essere trasferite nella sfera amministrativa essendo per altro ormai sconfessata la convinzione che il processo penale abbia maggior efficacia rispetto ad una azione amministrativa garantista, rapida e incisiva.

La parte civile nel processo, con l’ampliamento della platea dei soggetti legittimati ad invocare un risarcimento che di norma viene rimesso per la quantificazione al giudice civile costituisce un appesantimento dei processi considerato altresì che le parti sono tutelate dall’azione del Pubblico Ministero con il quale possono interloquire.

Della opportunità di revisionare la fase relativa all’udienza preliminare si è detto.

Per quanto attiene allo svolgimento delle indagini, le Procure devono poter disporre di quanto necessita per contenerle in tempi ragionevoli, in primis, attraverso il potenziamento della PG, sgravata da compiti che non le sarebbero propri, sotto la direzione del Pubblico Mistero ma preservandole la possibilità di utilizzare al meglio la competenza professionale specifica.

Il PM dirige le indagini garantendo che le stesse rispettino le regole processuali e siano finalizzate alla ricerca della verità (processuale), detta garanzia giurisdizionale è fondamentale dal momento che, come vedremo, in oggi, il dibattimento è fortissimamente condizionato da quanto acquisito al fascicolo del PM nel corso delle indagini preliminari.

 

Passando ad esaminare la fase dibattimentale ci accorgiamo che la riforma Vassalli rischia la peggiore sconfitta proprio in relazione a quella che doveva essere la sua punta di diamante.

Complice la lunghezza dei tempi ,che certo non giova, la centralità del dibattimento, dove la prova si dovrebbe formare nel contraddittorio delle parti, è sempre più una chimera.

Il meccanismo delle contestazioni finisce, nella prassi, per sostituire alle deposizioni raccolte in aula il contenuto di quelle rese nel corso delle indagini al PM e alla PG in assenza di contraddittorio e senza alcun limite alla suggestionabilità del soggetto escusso e senza possibilità di verificare la verbalizzazione.

In aula ogni discostamento rispetto a quanto detto nella fase meno garantita rischia di portare, come spesso porta,  ad una  richiesta di atti da parte del PM al fine della incriminazione del teste.

Per altro, anche grazie a ciò il richiamo a quando detto in precedenza finisce di prassi per comportare le rettifica di quanto appena deposto in dibattimento, giustificata dal tempo trascorso dai fatti.

Così nella concreta esperienza il dibattimento acquisisce molti elementi probatori formatisi al di fuori dello stesso con una frequenza ormai preoccupante.

Il peso di tutto ciò è ormai insostenibile per la genuinità del giudizio.

Occorre certamente un’udienza più ravvicinata ai fatti ed una delimitazione funzionale del regime delle contestazioni, per altro, in attesa di ciò si otterrebbe un miglioramento dando applicazione a quanto il codice già prevede.

Applicando il dettato combinato degli articoli 134, 357, 373 c.p.p., i verbali delle S.I.T. e degli interrogatori redatti in forma riassuntiva devono comportare di norma la riproduzione fonografica. L’omissione di questa è dal codice consentita tassativamente solo in caso di atti a contenuto semplice, di limitata rilevanza o in caso di contingente indisponibilità di strumenti di riproduzione o di ausiliari tecnici. Di prassi la registrazione non avviene. Tutto ciò impedisce di avere a dibattimento, in fase di contestazione, una riproduzione che consente la piena valutazione delle deposizioni, se non altro in relazione al contenuto e alla modalità con cui sono state formulare le domande.

L’inutilizzabilità prevista dall’articolo 141 bis in relazione agli interrogatori di persone in stato di detenzione dovrebbe essere estesa a tutte le S.I.T e a tutti gli interrogatori considerando che la deroga alla registrazione è ammessa per fatti contingenti e tale non può essere considerata la cronica assenza di idonea strumentazione.

Di ciò in ogni caso deve tenersi conto nel corso del dibattimento e agli effetti della valutazione della prova opponendo quantomeno la mancata registrazione e la impossibilità di valutazione della genuinità della deposizione sotto il profilo della suggestionabilità.

 

Altra problematica da affrontare in relazione al dibattimento è quella relativa alla competenza per materia che in oggi fornisce esempio di illogicità e disorganicità.

La ripartizione di competenze tra tribunale collegiale e tribunale monocratico regala soluzioni assolutamente paradossali. Anche in questo caso bene sarebbe una riflessione complessiva così da meglio ripartire la materia in applicazione di criteri quantomeno logici.

In oggi, a puro titolo di esempio, si discutono davanti al Tribunale monocratico il disastro colposo, la colpa professionale, la circonvenzione di incapace…..

Capitolo certamente di non secondaria importanza, nell’affrontare il tema dell’efficienza, è quello relativo all’apparato burocratico: il processo può guadagnare efficienza se è sorretto da un sistema di cancelleria efficiente e dotato delle necessarie risorse umane ed economiche. Altrimenti ogni intervento rischia di naufragare.

Sotto questo profilo non può che rilevarsi come l’utilizzo nel processo penale di strumenti informatici sia ancora rudimentale mentre potrebbe concorrere in tempi brevi a razionalizzare l’iter processuale.

Un sistema unico su base nazionale dovrebbe permettere, naturalmente con l’uso di password, l’accesso alle informazioni che si dovrebbero ottenere ai sensi dell’articolo 335 c.p.p.

I depositi dovrebbero già da tempo essere possibili mediante PEC così come la proposizione di opposizioni e impugnazioni.

In generale, dovrebbe darsi impulso alla digitalizzazione dei fascicoli con la creazione di una copia informatica in grado di essere considerata “autentica e integrale” organizzata in modo tale da permettere l’agevole ricerca dei singoli atti in essa  contenuti.

 

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La ricognizione di quel che rimane del mai nato sistema accusatorio in Italia ci porta a valutare un rito imbastardito da continue modifiche prive di alcun criterio di sistematicità.

Gli interventi riformatori che si sono susseguiti, strappati spesso alla sfera del tecnicismo giuridico e costretti a subire logiche improprie, hanno determinato in oggi l’assoluta necessità di porre al centro della riflessione un serio esame da condursi al di fuori di suggestioni estemporanee e incompetenti, che si ponga come obiettivo il recupero del ruolo che la giustizia penale deve avere in un contesto civile.

Devono essere identificate le cause e non solo gli effetti della crisi del processo e su queste intervenire con una visione sistematica rispettosa dei diritti dei singoli e delle funzioni pubbliche.

Si deve porre come cogente premessa la convinzione che il buon funzionamento della giustizia è elemento fondamentale per la vita democratica e civile di un Paese almeno quanto il sistema bancario e abbandonare l’idea che le riforme in materia di giustizia si possano fare a condizione che non comportino costi.

Quando si parla di risolvere i problemi della giustizia ci troviamo di fronte spesso a prospettazioni che affrontano solo gli effetti del male, le sue ombre. Le ombre, possono essere contrastate con altre ombre. Le cause richiedono interventi competenti e impiego di risorse. Le competenze certamente si possono trovare, le risorse solo se interessa veramente che la giustizia funzioni.

In oggi di un impegno economico adeguato a risolvere le carenze che affliggono il sistema giudiziario, anche se non della stessa portata di quello che si immagina per la salvezza di qualche istituto bancario, non se ne parla. Basta aumentare la prescrizione …. Riflettiamoci.

Le risorse culturali per addivenire ad un organico ed efficace progetto di riforma del processo certamente ci sono: in primo luogo, il rinnovato spirito che anima il confronto dialettico tra parte della magistratura e parte dell’avvocatura, i recenti protocolli tra CSM e CNF, tra CNF e Corte di Cassazione indicano la strada che dovrebbe portare ad offrire al legislatore un contributo di elevata qualità tecnico-scientifica le cui fondamenta siano, come è indispensabile che sia, profondamente radicate nella conoscenza della realtà in cui vive oggi il processo penale nel nostro Paese.

Intorno a questo nucleo che condivide il comune tratto dell’esperienza sul campo deve aggregarsi il fondamentale contributo del mondo universitario, ed in particolar modo di quello che non rifiuta il confronto con l’esperienza derivante dalla realtà.

Queste forze, beneficiando della attenzione manifestata in sede ministeriale, devono promuovere un ampio dibattito.

Affrontando il problema del rispetto delle garanzie da coniugarsi con il problema dell’efficienza la prima domanda da porsi, uscendo da un tunnel che sembra acriticamente accettato, è relativa a quale sistema vogliamo. In questi termini il progetto deve precedere la realizzazione dell’opera e non deve mancare.

Se la scelta sarà per la conferma di un sistema accusatorio questa dovrà diventare metro di coerenza.

Non necessariamente il nostro processo dovrà essere fotocopia di quello anglosassone ma dovrà comunque rispondere ad una logica sistematica; potrà essere una versione nostrana del rito accusatorio ma non potrà rinunciare all’essenza di tale scelta. Su alcuni punti fondamentali, tra loro collegati da un vincolo logico, dovrebbe essere immaginata una sorta di rigidità almeno concettuale così da evitare quanto già successo con il codice Vassalli.

Questa riflessione dovrebbe essere accompagnata da una serie di iniziative da svilupparsi a cominciare dalle sedi universitarie fino a quelle sociali e politiche volte al superamento dell’ “inconscio inquisitorio” considerato che, lo si voglia o meno, certe battaglie si cominciano a vincere sul terreno della cultura.

Cultura che deve essere quella del rispetto della dignità umana e dei diritti fondamentali, della affermazione del ruolo dello Stato, della ricerca del bilanciamento degli interessi pubblici con quelli privati; cultura che fornisca gli strumenti per comprendere la reale essenza degli istituti processuali, della finalità e del ruolo della pretesa sanzionatoria.

[1]Cfr Menè Antonio   “La stratificazione legislativa successiva al codice di procedura penale” in Bollettino di informazioni costituzionali e parlamentari. – 1995, n. 1-3, p. 351-367

 

[2] La decisione di mutare il tenore del principio fu del Comitato di Redazione in seno alla Costituente al momento del passaggio del testo dalla I Sottocommissione all’adunanza plenaria  della Commissione per la Costituzione. Dal dibattito della I Sottocommissione si evince come la presunzione di innocenza sia stata scartata per via della sua inadeguatezza formale legata al rischio di una sua interpretazione in termini di vera e propria regola giuridica anziché di mero principio come nel caso della presunzione di non colpevolezza. Ampiamente sul punto: Enrico Marzaduri “Considerazioni Sul significato dell’art. 27 comma 2 Cost.: regola di trattamento e regola di giudizio”, in Filippo Raffaele Dinacci (a cura di), “Processo penale e costituzione”, Giuffrè Editore, 2010, p. 311 e ss.

[3] Cfr Loredana Garlati, “L’inconscio inquisitorio”, Giuffrè Editore , 2010

 

[4] Corte Costituzionale  26 marzo 1991 n. 111